Riscoprire la stagionalità degli alimenti significa saper attendere. Sapere che i pomodori e le pesche vogliono il sole dell’estate, che i cavoli non temono il freddo, che le arance maturano in autunno-inverno. Inoltre, che possiamo conservare in diversi modi la frutta e la verdura quando la produzione è abbondante. Riappropriarci di questi e altri saperi dimenticati per ricordarci che non solo siamo consumatori, ma anche che, nella storia dell’umanità, siamo stati raccoglitori, cacciatori, allevatori e coltivatori, e ci stimola a trovare nuove forme creative per tornare protagonisti del nostro sostentamento.
Il fenomeno crescente degli orti urbani, ad esempio, evidenzia il bisogno primario delle persone di recuperare il legame con la terra, anche coltivandola.
Un buon motivo per promuovere questa sensibilità è legato alla nostra salute e a quella dell’ambiente. Dati scientifici affermano che per forzare le colture sono necessari molti fertilizzanti e dosi massicce di trattamenti chimici, perché le piante costrette a nascere in “cattività” si ammalano più facilmente che nella loro stagione dedicata. Così noi, assieme alla terra, oltre ai frutti del fuori stagione, ci mangiamo un bel po’ di veleni!
Un altro buon motivo è legato ad un fattore economico: gli alimenti fuori stagione, compresi i prodotti esteri, hanno un maggior costo, rispetto a quelli locali di stagione, perché prodotti in serra o hanno fatto un lungo viaggio per raggiungere il consumatore, spesso transoceanico.
ll viaggio oltre ad incidere sul prezzo, dovuto ai costi di trasporto e logistica, contribuisce ad aumentare le emissioni di CO2 nell’ambiente in una sorta di ciclo esponenziale continuo di inquinamento.
Infine, acquisire piena consapevolezza di cosa ruota intorno alla produzione massiva nelle serre, ci mette di fronte questioni etiche ineludibili. Parliamo in particolare nel ragusano dove esistono serre che vantano la triste fama di essere tra le più grandi d’Europa e tra le prime in Italia, non solo come estensione e capacità produttiva, ma anche per le terribili condizioni di lavoro delle persone che ci lavorano, non ufficialmente e in un regime di schiavitù.
Come posso mangiare frutta e verdura proveniente dallo sfruttamento dei lavoratori, dagli abusi sessuali subiti delle donne lavoratrici, dall’avvelenamento dei terreni dovuto all’uso massiccio di pesticidi e fertilizzanti e dallo sfruttamento degli insetti impollinatori?
L’enorme sofferenza generata agli esseri e all’ambiente per produrre cibi che la natura, con le sue stagioni, non fa spontaneamente, diventa un forte motivo per scegliere ciò che è disponibile nella stagione. Ma non solo, questa scelta assume un carattere decisivo nel coltivare stili di vita salutari per noi e per l’ecosistema.
Bibliografia:
Lo sfruttamento nel piatto – Quello che tutti dovremmo sapere per un consumo consapevole – di Antonello Mangano ed. Laterza
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