L’Arte nel suo ruolo primario è visione. Uno sguardo che comprende le persone e le loro relazioni, l’ambiente e i contesti, il passato ed il futuro.
Rappresenta la capacità di interpretare il Mondo fuori dall’assioma azione/reazione, indagando le profondità emotive, il loro senso ed il loro valore profondo. Lo fa fuori dagli schemi e dai paradigmi del comportamento, della morale e dalla consuetudine. Lo sguardo dell’Arte è sguardo etico, non morale. Non sottintende leggi, ma valori. Tende a stimolare consapevolezza, non paura. Emancipa se stesso da tutti gli strumenti che l’essere umano si è dato per cercare di controllare il suo Mondo. In qualche modo lo libera da questa auto imposta coercizione per renderlo capace di immaginare. Immaginare altri mondi, altre storie, altri futuri.
Un compito enorme, ma che non può che essere profondamente necessario.
Necessario in quanto, senza questa visione, siamo lasciati senza coordinate per il nostro mondo emotivo, senza direzione nella nostra intimità nel momento in cui si rapporta al nostro contesto di relazioni e questo ruolo l’Arte non lo chiede, lo possiede per definizione.
Definizione di un’espressione nata da questa esigenza: trasportare il senso in una dimensione non esattamente “reale”, ma che di realtà si nutre. La dimensione che posiziona il singolo in una prospettiva collettiva, fatta di relazioni, emozioni condivise, azioni comuni.
Ed oggi che assistiamo alla progressiva desertificazione emotiva a causa di un senso della comunità delegato ad esperienze virtuali, alla mancanza di ritualità condivisa e proprio ora che questa condizione deve affrontare il terrorismo psicologico della conta dei morti, della paura dell’altro, della “distanza”, dobbiamo provare a dare una risposta. Rispondere a tutto questo costruendo e immaginando il nostro futuro. Per fare questo credo che dovremmo interrogarci sul concetto di “avere cura”, piuttosto che su quello di “cura”. È un processo sottile che è proprio appannaggio dell’Arte. Si ha cura delle nostre paure per non renderle fobie, ci si prende cura degli altri per evitare di inventare nemici dove non ce ne sono.
Si parla molto, e a ragione, del ruolo comprimario della cultura nell’assetto politico odierno e nella sua provocata obsolescenza. Ma si parla poco di quello che la cultura e l’Arte sono e quale ricchezza ci viene negata, quale strumento ci viene tolto nel bel mezzo del periodo in cui si fa più necessario. Imparare a vedere dove gli altri sguardi si fermano, imparare a riflettere la condizione dell’altro e soprattutto imparare a leggere, con sguardo ampio e non timoroso, il nostro presente.
Presente che non è solo pandemia, non è solo il tempo per la paura della malattia e quindi della morte.
Evidentemente è il tempo in cui bisogna imparare a fare di più e meglio. In cui bisogna avere cura di noi, ovviamente, ma nel nostro legame con gli altri. Nel nostro legame con “l’altro”.
E so che l’Arte è lo strumento che l’essere umano si è dato proprio per realizzare questo scopo, rivendicando il suono del vento, i colori del cielo, il passare del tempo, le sinuose fattezze degli alberi, il calore del fuoco come “lingua”. Come codice per le proprie emozioni profonde.
Per cui, dovremmo rivendicare, adesso, quella “lingua” per guidarci fuori da un presente scomodo e spesso avvilente e per edificare un futuro che l’immaginazione degli artisti ci continua a presentare davanti agli occhi.
Marco Colonna
Marco Colonna (1978) è musicista, occasionalmente scrittore, fra i più attivi della sua generazione. Attivo in vari ambiti della musica (dalla classica contemporanea al folk, dall’art rock al jazz ) ha al suo attivo decine di dischi e attualmente è titolare della cattedra di Tecniche dell’improvvisazione presso Siena Jazz.
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